ROMA – Il sindacato di polizia LeS (libertà e Sicurezza) non fa mistero della propria delusione su questa triste ricorrenza, di cui parliamo con il portavoce Elvio Vulcano.
D.: Vulcano, lo scorso sabato si sono svolte in tutte Italia numerosissime manifestazioni in ricordo della strage del 23 maggio 1992, in cui perse la vita il dott. Giovanni Falcone, la moglie e la sua scorta. Sembra che Les rappresenti una voce dissonante, come mai?
R.: Come da quel tragico 1992, ogni anno ricordiamo la strage di Capaci e, come dice Antonio de Curtis– cioè Totò, nella poesia “’A LIVELLA”: “Ognuno ll’adda fa’ chesta crianza; ognuno adda tené chistu penziero.” E, come sempre, in tanti hanno voluto ricordare la morte del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvilloe degli uomini della scorta Vito Schifani, Rocco Di Cilloe Antonio Montinaro. Una data che è diventata simbolica per onorare tutte le vittime della mafia.
D.: Vulcano, però, perché siete delusi di come è andata la commemorazione?
R.: Siamo delusi non certamente per le cerimonie che si sono tenute per ricordare le vittime della mafia e, nel contempo, per spronare tutti a combatterla; è un ricordo importante che va preservato in particolar modo per le nuove generazioni, perché queste atrocità non si ripetano mai più.
D.: Insisto, allora perché questa delusione?
R.: Mi permetta di citare una frase del dr. Falcone: “Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini.” È una bellissima frase piena di significato, ma da quando è stata pronunciata dal dr. Falcone ad oggi quelle parole, secondo noi, hanno perso gran parte del loro significato. Non ci sono più gambe che possano sostenere un tale peso. Vede, l’onore, la dignità, la parola data, sono concetti rari di questi tempi, anzi anacronistici. Abbiamo l’impressione che la commemorazione del 23 maggio sia sempre più un rito che deve ripetersi uguale a se stesso, ma che non abbia più quel senso profondo di reazione nei confronti del fenomeno mafioso in tutte le sue complesse sfaccettature”.
D.: Perché ritiene ciò?
R.: Si parla di lotta alla mafia, ma, di fatto, le risorse messe in campo per fronteggiarla sono sempre inique, sempre più scarse verso un fenomeno che si rinnova e muta abito e comportamenti molto più velocemente di quanto non immaginiamo. Noi, come poliziotti, continuiamo a chiedere mezzi e uomini, ma anche leggi più severe più chiare e, mi permetta di dire, anche pene più certe! Veda noi, come poliziotti, ci sentiamo delusi, perché quando il sistema permette per una semplice influenza (com’è stata definita da qualche politico il covid19) di far uscire dal carcere dei detenuti pericolosissimi, detenuti condannati in via definitiva al carcere duro, detenuti costati migliaia di vite umane sia tra gli avversari, sia tra le Forze dell’Ordine e sia tra cittadini innocenti, detenuti costati anni di indagini e milioni di euro per arrivare alle condanne e che, poi, vengono scarcerati quasi come se niente fosse, ci dica lei, come poliziotti, come dovremmo sentirci?
D.: Però, le ricordo che sono stati scarcerati per ragioni sanitarie!
R.: Certamente! Ma noi poliziotti siamo rimasti al nostro posto, i sanitari sono rimasti al loro posto e molti di loro hanno perso la vita, perfino le cassiere dei supermercati sono rimaste al loro posto, quei particolari detenuti, invece, sono stati scarcerati e sono tornati nelle loro case. Inoltre consideri che, secondo noi, non poteva esserci posto migliore, per la tutela della loro salute, del regime carcerario che stavano scontando. Le chiedo: i familiari delle tante loro vittime avranno compreso questa differenza di trattamento?
Roma, 24/05/2020 Ufficio Stampa
Segreteria Nazionale