La schiavitù è un fenomeno che attualmente può sembrare lontano; ma, guardando a fondo la nostra società, è palese che gli strascichi di questa pratica disumana persistono ancora oggi: esempio ne è la tratta delle giovani donne costrette alla prostituzione. Gli schiavi hanno rappresentato, loro malgrado, una parte importante e funzionale nella costituzione delle società attuali; basta lanciare lo sguardo di poco dietro di noi, al filo rosso della storia, per renderci conto che sono stati una costante dall’antichità fino all’Età Moderna.
Salvatore Bono nel suo libro: “Schiavi – Una storia mediterranea (XVI- XIX secolo)” (il Mulino, 481 pagine, 15 Euro) affronta il caso a partire appunto dal sedicesimo secolo. Non è una scelta occasionale: in questo periodo, infatti, si dà inizio a una specifica schiavitù mediterranea. L’occhio attraverso il quale l’autore osserva è, naturalmente, quello di un individuo occidentale; anzi, a essere ancora più precisi, l’occhio di un mediterraneo. Nell’epoca appena indicata, l’usanza dell’importazione di “merce umana” dalle terre del Levante comincia a scemare, dando impulso a una “industria” tipica del Mare Nostrum che procurava schiavi attraverso razzie, incursioni, attività corsara, oppure approfittando di naufragi.
La schiavitù non ha sempre le stesse forme, anche se il senso comune riflette su tale pratica come distante, sia nel tempo che geograficamente, concentrandosi per esempio sulla tratta atlantica dei neri africani, stipati e trasportati in grandi navi verso le coste del Nuovo Continente. Tale visione è parziale e riduttiva. Quella mediterranea è una parte significativa della storia della schiavitù; e si inserisce in una fase di scontro aperto tra il blocco occidentale cristiano, da una parte, e la potenza orientale musulmana, dall’altra, caratterizzato da conflitti, equilibri politici e la cattura di prigionieri. Tra le due realtà religiose e politiche – finiti tra due fuochi – troviamo gli ebrei, anch’essi vittime della pratica di dominio che si manifesta nella costrizione alla schiavitù.
Nell’Età Moderna, periodo analizzato da Salvatore Bono, sono tante le storie che ci raccontano di come venisse impiegata questa manodopera obbligata, sia da parte del mondo europeo sia da quello arabo: gli harem, le galee, le case dei benestanti, i lavori pubblici, i cantieri di grandi opere come la Reggia di Caserta (la quale ha un primato per quanto riguarda le fonti sui lavori di costruzione, in relazione agli schiavi impiegati). Sono solo alcuni dei luoghi in cui è possibile vedere degli schiavi; anzi, è un elenco a dir poco riduttivo, dato che la compravendita degli esseri umani era un fatto talmente presente allora che alla luce dei diritti sociali attuali fa rabbrividire. Le libertà venivano continuamente vietate e violate; e tante volte il pretesto era semplicemente un credo religioso diverso o un conflitto scoppiato per questioni economiche e politiche.
Abbiamo definito questo fenomeno come un’“industria”; può suonare strano, ma è proprio così che deve essere visto, con le relative oscillazioni dei prezzi, influenze politiche che entrano in gioco e permettono di liberare o imprigionare essere umani: uomini o donne che siano. L’autore del libro – professore emerito dell’Università di Perugia, dove ha insegnato Storia del Mediterraneo – fa da timoniere in un viaggio che ci fa scoprire in il modo in cui si traduce la schiavitù da luogo a luogo, secondo le proprie peculiarità, nel pubblico e nel privato: “Si stima che fra il Rinascimento e l’età napoleonica in Europa e nei paesi mediterranei la schiavitù abbia coinvolto nel complesso quattro-cinque milioni di persone” di ogni etnia ed estrazione. Viaggeremo con il professor Salvatore Bono di costa in costa, solcando le pagine del suo libro e il mare a noi italiani più familiare; ma, per fortuna, questa volta senza il rischio di essere catturati se non dal suo stile chiaro e scorrevole.
Dario Palmesano