Nei primi mesi di quest’anno ho pubblicato su un giornale on-line una recensione dal titolo “Risorgimento, nient’altro che un romanzo storico”, con esso non avevo intenzione di affermare alcuna verità, ma solo di indurre il lettore ad una maggiore riflessione su di un argomento caratterizzato dai soliti stereotipi o luoghi comuni, astenendomi in ogni caso dal gettare luci o ombre su fatti e personaggi in odor di Santità.
Tale articolo potrebbe apparire incompleto, se non si chiarisce, al di là di ogni retorica o di ipocriti convincimenti personali, il risultato prodotto da quegli eventi nella coscienza individuale e collettiva degli italiani.
Partendo da una prima analisi dei fatti, possiamo subito affermare che il nostro caro “Risorgimento” non mostra alcun parallelismo o analogia con altre rivoluzioni, le quali comportano un radicale cambiamento nella forma di governo di un paese e in cui il ruolo da protagonista è riservato al popolo che è guidato da principi e ideologie comuni, ne sono esempi eclatanti la rivoluzione francese e quella russa.
Non può dirsi la stessa cosa per i fatti di casa nostra, in cui non c’è stato alcun cambiamento della forma di governo ma solo di uomini; inoltre gli autori e gli artefici del disegno unitario vanno rinvenuti in un apparato statale preunitario e in una ristretta e confusa elite intellettuale tanto celebrati dalla storiografia ufficiale; manca il popolo, che passivamente e forzatamente ha dovuto subire le scelte altrui, mancano quei principi e quelle ideologie comuni cui prima ho accennato e che rappresentano la miccia e il collante per una reazione popolare diffusa e condivisa.
Se così non fosse, mi chiedo allora qual è l’Italia nata dalla rivoluzione: quella voluta da Cattaneo, che spingeva per un unione federale, o forse l’Italia di Mazzini, che remava verso una forma di governo repubblicana, o forse ancora quella voluta da Garibaldi, che come ha confermato nelle sue memorie, sognava un paese guidato dalla dittatura?
A questo punto non posso esimermi dal lanciare una provocazione, soprattutto nei confronti di coloro che si riempiono la bocca di italianità; noi conosciamo bene i principi che hanno animato le rivoluzioni di altri paesi, pensiamo ad esempio agli ideali rivoluzionari dei giacobini, riassunti nel motto “egalitè, libertè, fraternitè”, oppure a quelli marxisisti dei bolscevichi, o ancora, volendo guardare al presente a quelli dei fondamentalisti islamici dei paesi medio orientali. Ma quali sono invece quelli di casa nostra? sono convinto che nessuno sappia rispondere a questa domanda se non dopo una approfondita ricerca su qualche volume enciclopedico; e anche li, se mi si è consentita una punta di cattiveria, credo sia difficile trovare la risposta.
L’esperienza passata e presente ci insegna che ogni rivoluzione è preceduta da imponenti manifestazioni di protesta del popolo che scende nelle piazze, che grida e rivendica con cori unanimi i propri diritti, che si dirige verso i palazzi del potere sfidando la morte. Non ricordo esempi di questo genere a Napoli, Parma, Modena, Roma, Venezia, Bologna ecc. ecc; ma allora, questa rivoluzione tutta italiana, dove e come si è manifestata?
In realtà, rivoluzioni nazionalpopolari nella nostra penisola non sono mancate, basti pensare ai Vespri Siciliani, alle Pasque Veronesi in Veneto, al movimento dei Viva Maria in Toscana e al movimento Sanfedista nell’Italia meridionale, in tutti questi casi la spinta è partita dal basso, esse non sono state pianificate dalla classe borghese o intellettuale nè tantomeno hanno avuto forza e sostegno da eserciti stranieri. Nulla di tutto ciò è riscontrabile nel cosiddetto Risorgimento; il popolo sembra quasi inesistente, salvo qualche comparsata all’arrivo degli eroi, così come avviene per il passaggio dei corridori al “giro d’Italia”.
Continuando nella nostra analisi, vediamo come, l’avvicendarsi nei secoli nella nostra penisola di varie dominazioni straniere, sia stato determinante non solo per il formarsi di alcune macroregioni, delineando così quell’assetto politico istituzionale riconosciuto e ratificato dal congresso di Vienna, ma anche per il nascere e il fiorire di popoli diversi per lingua, cultura e tradizioni; differenze queste che vengono ricordate solo per finalità di propaganda turistica e che vengono negate o sottaciute ogni qual volta si parla di unità nazionale; a questo punto mi torna alla mente l’inno di Mameli e la famosa frase “Fratelli d’Italia”. Ritengo che occorre fare un grande sforzo di immaginazione per considerare un abitante di Pantelleria fratello di un sud-tirolese, forse gli uni non conoscono neanche l’origine geografica degli altri; credo sia azzardato parlare anche solo di cugini. E che dire di un pugliese e di un valdostano o di un napoletano e di un veneto? e così a seguire, fino a scoprire che bisogna avere molta fantasia per ricercare una qualche forma di parentela bastarda tra coloro che affondano le loro origini nella Magna Grecia e chi vanta con orgoglio derivazioni barbariche o celtiche.
Paradossalmente ci troviamo di fronte a quella che in gergo spirituale viene definita la “sacra unione degli opposti”.
Inoltre, il voler sostenere con forza che l’elemento fondante e cogualizzante di questa nostra italianità sia da ricercare nella lingua italiana, appare anacronistico e privo di fondamento se si considera che esistono popoli che, pur condividendo etnia e lingua con altre genti, difendono e in altri casi rivendicano con forza il proprio diritto all’autodeterminazione. Pur volendo fare un richiamo alle fonti storiche, non dobbiamo dimenticare che nel 1861, l’80 per cento di coloro che parlava l’Italiano erano Toscani, per cui solo successivamente, e molto lentamente, attraverso la burocratizzazione e la leva obbligatoria, tale lingua riuscì ad imporsi non senza difficoltà oltre i confini dell’ex Grand ducato; la sua diffusione non fu quindi spontanea ma imposta. In ogni caso nella penisola si parlava e si parlano ancora, nonostante il processo di erosione linguistica determinato dai mass media e dal processo migratorio interno, diverse lingue. Ricordiamo alcune quali il tedesco, il francese, il croato, il ladino e vari dialetti che hanno tutti gli elementi per potersi considerare una lingua, tipo il napoletano e il siciliano.
Vediamo che anche questo elemento, a mio modesto parere, non può rappresentare l’anello di congiunzione tra le diverse realtà territoriali.
A questo punto diventa veramente molto difficile trovare qualche sincretismo “marcato Italia” che ci possa convincere del contrario; mi sostiene in questa mia convinzione una frase dell’insigne Ennio Flaiano: “in Italia la linea più breve tra due punti è l’arabesco”.
In verità sono tanti i fattori che contribuiscono alla nascita di un popolo e di una nazione, elementi che si fondono in un tutt’uno, generando poi un processo di aggregazione sociale da cui scaturisce quel senso di identificazione e di appartenenza che prende il nome di sentimento nazionale.
Se proprio vogliamo parlare di italianità, essa allora va ricercata nella nostra diversità, la quale la possiamo considerare come un valore aggiunto che va a sommarsi all’essere padani o meridionali senza mai sostituirsi a questi o a quelli, implica un sentimento di appartenenza allo stato e non alla nazione.
Chi si ostina a sostenere che il sentimento nazionale era già presente nei popoli degli stati preunitari, tanto da venir considerato il motore propulsore che portò all’unificazione, dovrebbe spiegare perché tale sentimento non fu mai manifestato da coloro che ugualmente vivevano in regioni che geograficamente e storicamente sono italiane, mi riferisco a Nizza, alla Savoia, alla Corsica e al Canton Ticino; e inoltre perché il popolo di San Marino, pur adottando l’Italiano come lingua ufficiale e pur parlando il dialetto romagnolo, rivendica con orgoglio l’appartenenza alla propria nazione, e ancora perché gli abitanti di Malta, pur essendo geograficamente più vicini all’Italia di quanto lo siano gli abitanti di Lampedusa, non abbiano mai manifestato quel senso di fratellanza che starebbe alla base della nostra unità. O forse dobbiamo essere così ingenui da pensare che solo le regioni attraversate dagli eserciti dei due eroi risorgimentali, ebbero la fortuna, per magia o per straordinaria casualità, da essere investite da questo vento di rinnovamento, mentre per le altre tutto ciò non si verificò? che dire, strano ma vero?
Forse sarebbe più corretto parlare di disunità e discontinuità anziché di unità e di continuità, se si pensa ai continui cambiamenti di regime e di governo che si sono avuti nel corso solo di un secolo e mezzo e al fatto che in centocinquant’anni ogni qualvolta gli italiani sono stati chiamati a compiere delle scelte importanti riguardanti l’Italia, si sono sempre presentati divisi, frammentati e spesso schierati su fronti nemici contrapposti, in cui come al solito, solo l’uso della forza e il sangue dei vinti hanno prevalso sui tanto decantati principi e valori unitari; ed è proprio da questi ultimi che secondo gli apologeti del risorgimento il sentimento nazionale troverebbe linfa vitale.
Non mi sembra quindi di esagerare nel ritenere che tale sentimento patriottico appare del tutto assente sul piano individuale, mentre collettivamente si manifesta con scarsa o moderata emotività solo in occasione di competizioni sportive internazionali; non è un caso che fu proprio il Presidente Ciampi ad esortare gli sportivi a cantare l’inno nazionale e ad ammonirli nel tenere un comportamento più consono alla solennità del momento anziché masticare gomme e toccarsi ripetutamente i “gioielli”.
Diverso è invece il sentimento che lega un francese alla propria nazione, dove non c’è via o piazza che non espone la propria bandiera; stessa cosa nel Regno Unito o negli Stati Uniti. In questi ultimi il 4 luglio, ossia il giorno dell’indipendenza è festeggiata con eventi sia pubblici che privati, in cui gli americani tutti, si sentono investiti e trascinati da una sorta di delirio collettivo; diversamente da noi, dove le celebrazioni per le varie ricorrenze di stampo risorgimentale e il 2 giugno, festa della Repubblica, non sono sentite come giorni di festa, ma solo come eventi pubblici senza alcun coinvolgimento privato.
L’amore e il senso di appartenenza ad una nazione è un sentimento profondo che non può essere cancellato dall’opera “civilizzatrice e moralizzatrice” di chi ci governa, esso affonda le proprie radici nella storia e nelle tradizioni, sono questi ultimi che danno origine a quegli ideali e valori che portano un individuo ad avere un rapporto quasi simbiotico con la propria terra, con le proprie origini, con il proprio passato.
Tale legame profondo e indissolubile è dimostrato anche nelle canzoni degli emigranti, in cui la patria viene identificata con la singola realtà territoriale di provenienza e di appartenenza, pensiamo ai brani dal titolo “Santa Lucia Lontana, Lacrime Napulitane , Torna a Surrient ecc.”; certamente la componente napoletana o meridionale è prevalente ma non unica, vediamo ad esempio “La porti un bacione a Firenze, Romagna mia, Ma se ghe penso”, che esprime la nostalgia per la Genova lontana; in quasi tutti i brani l’elemento regionalistico si sostituisce all’inesistente elemento nazionalistico.
Anche la religione gioca un ruolo importante e significativo nel rapporto che un individuo ha con la propria realtà territoriale, pensiamo ad esempio a S.Giovanna d’Arco, patrona dei Francesi, essa non rappresenta solo un simbolo di fede ma anche di identità collettiva di un popolo; analogo discorso è per i patroni di Palermo e di Napoli, per queste genti Santa Rosalia e San Gennaro rappresentano la controparte spirituale dell’elemento regionale-nazionale, sono fortemente emblematici e rappresentativi, non può dirsi invece la stessa cosa per San Francesco d’Assisi, il patrono d’Italia, egli non trasmette alcuna emozione significativa se non di carattere spirituale e votivo.
Vediamo quindi che ancora una volta l’elemento regionalistico prevale sull’elemento nazionalistico.
Solo nel passato storico più recente gli italiani hanno veramente creduto di essere una nazione, la loro falsa convinzione si fondava sul richiamo alla cultura e ai fasti dell’antica Roma, richiamo perpetrato attraverso l’imposizione costante di un simbolismo diffuso e imperante, espressione di potere e di potenza. Il risultato è stato una sorta di delirio collettivo misto a sentimenti di esaltazione e di orgoglio nazionale; il tricolore è andato quasi scomparendo per essere sostituito dall’aquila imperiale e dal fascio littorio, l’italianità è stata confusa con l’imperialità delle legioni romane e i decantati principi liberali assorbiti da quelli totalitari.
Con la fine di quel simbolismo teatrale, tutto il sistema è andato in crisi e gli italiani hanno dimenticato di essere fratelli, tornando a trincerarsi dietro principi e ideologie contrapposte.
In realtà dai romani ci separano duemila anni di storia che non possono essere ricordati o dimenticati solo ad uso e consumo di chi ci governa.
Tornando al tema iniziale, non si può immaginare che un secolo e mezzo di falsa retorica risorgimentale, accompagnata spesso da continui e ripetuti messaggi subliminali, non abbia prodotto dei risultati privi di conseguenze nella coscienza degli italiani, i quali orfani del proprio passato e messi alle strette da un revisionismo storico basato su un contraddittorio non sempre corretto ed equilibrato, si ritrovano a dover a fare i conti con una visione superficiale e distorta del proprio presente. Tutto ciò si traduce in un modo di agire che spesso è opposto al loro pensare convenzionale; e allora ecco che ci troviamo di fronte all’Italia delle contraddizioni e delle contrapposizioni, delle ipocrisie e dei facili conformismi. Tale assunto trova conferma soprattutto quando si parla di amor patrio; riscopriamo questo termine solo in occasione di ridondanti discorsi patriottici, dimenticando invece come siamo inclini a manifestare la nostra più totale indifferenza nei confronti di tutto ciò che dovrebbe rappresentare la patria. Il disinteresse per l’ambiente circostante, sempre più spesso contaminato da cumuli di immondizia e mortificato da una cementificazione spregiudicata e selvaggia, nonché il mancato rispetto per il patrimonio storico e artistico sovente abbandonato all’incuria del tempo e all’opera devastatrice dell’uomo, sono esempi più che evidenti di un amore che non c’è.
Verrebbe da chiedersi chi sono allora questi italiani, sono forse coloro che dietro la perenne promessa di un Italia migliore, prendono soldi per comprare ville a Montecarlo o che stando seduti in comode poltrone in via della Pisana a Roma si ingrassano sui sacrifici della povera gente, o ancora chi, avendo fatto della lotta alla corruzione la propria arma politica, si scopre proprietario di un patrimonio immobiliare milionario? per gli altri che invece devono fare i conti con la quotidianità, stando attenti a non commettere errori per poter arrivare a fine mese, essere italiani diviene l’ultimo dei problemi, quel che conta è tirare a campare, cercando di pensare ai propri interessi e a fare i furbi a danno degli altri.
È evidente che ci troviamo di fronte a un paese malato dalla nascita, soggetto ad amnesie e a forti disturbi della personalità, che non cammina ma che forzosamente si trascina per andare avanti, un paese e un popolo che (secondo Gabriele Fergola) solo prendendo coscienza dei suoi mali potrà guarire da essi! Raffaele De Lillo