PIGNATARO M. – Il poeta pignatarese Giovanni Nacca ottiene un nuovo riconoscimento. La giornalista e critica letteraria Luigia Sorrentino, sul suo blog di poesia della Rai, ha recensito la raccolta di Nacca intitolata “Sembianze”. Di seguito il post della Sorrentino, raggiungibile anche a questo indirizzo http://poesia.blog.rainews24.it/2012/12/31/giovanni-nacca-sembianze/:
La parola liberata
dalla postfazione di Giuseppe Rotoli
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[…] “Le otto poesie di Nacca, raccolte in questa plaquette, (Pignataro Maggiore 2012) hanno il dono di essere piene, complete, corpose, turgide, nelle quali ogni verso impegna il lettore ad un supplemento di indagine per la miriade di schegge di verità che esso produce, che lascia intravedere. Le otto poesie, prendono e non lasciano fino alla fine inondando di luce e di ombra, di dardi e di carezze, di velluto e di asprezza, quasi a tramortire in un ininterrotto dialogo con ciò che non c’è o non c’è più, affidando alla parola, alle prime sillabe, l’unica certezza indagatrice dell’essere: ‘Le prime sillabe, combinazioni strane-/ l’esplosivo della parola non aveva/ ancora il suo detonatore’ (p. 12). Ad essa è affidata la dura e difficile missione di scandaglio dell’animo umano, prigioniero di incrostazioni razionalistiche, di deduzioni sillogistiche, oggi avvertite come insufficienti alla comprensione dell’essere umano: ‘un seguito di parole incagliate’ (p. 16), ‘Siamo questo sommesso brusio’ (p. 11), ‘il peso delle parole in quelle dei morti’ (p. 13). A me pare che sotto il peso di tale fardello, l’incipiente narrazione di un evento, la timida descrizione di un luogo, affidate al segno denotativo della parola, siano subito negate e superate, anzi sgretolate e disintegrate da audaci accostamenti allocutivi di termini concreti con termini astratti, alla maniera di Thomas Dylan, di Milo De Angelis. In tal modo il poeta fa esplodere i primi e li apre ad una vasta gamma di significati ulteriori, non sempre fruibili a livello razionale, ma godibili sul piano delle emozioni e del subliminale; la parola viene liberata dalle catene della consuetudine, dei meccanismi automatici e genera nuovi significati, che penetrano la carne e l’anima di chi legge: ‘L’unione delle mani ci precedeva/ era il sigillo di un’armonia…’ (p. 13), ‘il nulla lungo l’indice del milite ignoto’ (p. 12), ‘nel telaio dei sogni evaporati,/ nel conflitto delle rughe da venire’ (p. 14). In questa accorta e spossante costruzione si avverte il lungo lavorio di cesellatura del verso, tutto proteso a sostenere il peso dell’essere, di un essere in continua lotta per dar senso alla vita nella morte e alla morte nella vita. Sì, perché la chiave ultima del Nostro risiede proprio in questo ininterrotto dia¬logo con i morti e con la morte, alla quale si attribuisce uno speciale status di gnosi, perché il poeta è convinto che solo attraverso il passaggio nel dolore e nella sofferenza l’uomo possa trovare il senso della vita stessa, in cui la parola poetica riduce la realtà all’essenziale. […]”
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Lunedì di mercato
Venivano giù lenti dalle corriere
con l’aria terrosa dei solchi
e la distanza promiscua delle voci
altrove una meccanica delle braccia
che apriva l’antica danza del sudore.
Le bestie nei loro muscoli duri
dietro la porta, chiuse
la veglia del pane nelle madie
spesso una campana illuminata
preghiere dal sapore di radici.
Nell’angolo di un sorriso gli studenti
dell’industriale camminavano
ignari della resa che curva le spalle
senza l’ultimo riverbero dell’Angelus.
Alla fredda ansa del Volturno
la merce giungeva da un ventre
nascosto, folli e imbonitori
tramavano guerci “… di dove siete?
… solo le ultime restano nascoste
… come le vostre povere verità …”
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La coscienza delle ombre
Siamo questo sommesso brusio
che scende col tremore della sera
e la notte lì a premere sugli occhi
la sua moneta di abissi e silenzi.
Le mani vanno silenziose come acqua
c’è il tempo di leggere qualche volto
e conoscere il proprio andare
dove ogni secondo ha il suo passato
“… non trattenerlo domani se l’ami
… ti portava fiori ogni sabato …”
Si ripete l’ordine del tempo,
il codice immutabile delle cellule
il loro muoversi nel coro dei farisei
la liturgia delle comparse
il sorriso dei morti.
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Le parole prima delle parole
Le pedane tenevano assi di legno,
una grande finestra proiettava
le movenze silenziose di una villa,
il nulla lungo l’indice del milite ignoto.
Le prime sillabe, combinazioni strane –
l’esplosivo della parola non aveva
ancora il suo detonatore.
Le potevi solo vedere alle pareti
minacciose di cartelloni colorati.
Non era facile copiare la scia di gesso,
il cerchietto tondo, la pioggia di traverso
quella che ricordi col vento primaverile
nell’unica marea azzurra dei grembiuli.
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La cabina dell’acquedotto era la meta
dove trovava posto l’aria fresca
da catturare per il bambino fragile.
Il respiro del giorno lo sentivi avanzare
e il caldo di luglio era a un passo di luce
“… facciamo bene così. Sai?….
… così potrai ricordare dei colpi
a tradimento nel sonno…”
L’unione delle mani ci precedeva
era il sigillo di un’armonia
come il giro impazzito delle rondini.
La saldatura dei corpi che rimane
all’atto in cui muore il quadro d’insieme
quando perde i contorni e il bene scolora
nei vuoti della rete
negli scaffali del disordine dei neuroni.
Sotto galleggiavano i tetti del paese
da maledire per le catene e le lingue nere.
Il peso delle parole in quelle dei morti
il già visto che si perde nel nostro andare,
“… quella vedi, è la nostra casa …”.
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Luglio 1970
Dei sopravvissuti è appena un chiamare
quando in estate le parole cadevano
nella siccità della terra
nella scorza delle cose, pomeriggi afosi.
Eppure una frenesia la sentivi
come nella vibrazione dei colori
lungo la fila di fiori e di basilico.
All’angolo il limone sbiadiva giallastro
parlò a pochi morti del suo alloro.
Le donne immote ridevano sorde
nel telaio dei sogni evaporati,
nel conflitto con le rughe da venire.
Premeva già la belva nei fotoromanzi.
Nel Grand Hotel, il dopoguerra
distribuiva semi per ogni campo.
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Chissà se da qualche parte
dove siete al freddo
giunge la nostra voce
o la poca luce di questi giorni.
Siete un mormorare di acque
lontane, indicibili derive
un incontro di risate
discrete, celate
come di chi scampa un pericolo …
“… un dove eravamo
un dove non saremo più …”
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Nella terra resta traccia di tutto
passaggi stratificati
un seguito di parole incagliate
il rumore della storia, degli eserciti
le cose senza più una causa
lo sguardo dei morti.
Tra la semenza dei saggi
gli sciacalli passano furtivi
a muso radente frugano per rivoltare
qualche osso che rimane.
D’improvviso gettano scompiglio
mischiano le carte
rendono più confuso il convoglio.
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Giovanni Nacca (1961) vive a Pignataro Maggiore (Ce). Ha pubblicato La linea spezzata (LietoColle, 2006) e Feritoie (Il Faggio, 2010). Nel 2010 ha stampato in proprio e fatto circolare ‘clandestinamente’ la plaquette L’ira del perito imbelle. Alcune sue poesie sono state pubblicate in antologie come Stagioni (LietoColle, 2007), Il sogno: fra realtà e immaginazione (Romano di Lombardia, 2008) e sulle riviste «Poesia», «La Mosca di Milano» e «Il Monte Analogo». Come redattore della rivista «Le Muse» ha organizzato incontri e reading poetici con numerosi scrittori e poeti tra cui: Antonio Franchini, Sergio De Santis, Antonella Anedda, Milo De Angelis, Fabio Pusterla.