OSSIGENO – Milano, 28 marzo 2013 – Oggi Franco Abruzzo ha ricevuto a Milano la medaglia d’oro di veterano della cronaca per i suoi 50 anni di giornalismo, attività che prosegue cercando con certosina pazienza e segnalando quotidianamente sul suo sito tutte le notizie che possono interessare i giornalisti e la loro attività. Franco fa questo lavoro prezioso a titolo gratuito, e non ha concorrenti. E’ un lavoro che gli costa tempo e fatica. E’ un lavoro che contribuisce a dimostrare agli scettici che anche nel giornalismo può esistere, benché sia raro, un volontariato professionale disinteressato e che chiunque può rendersi (molto) utile mettendo le proprie capacità al servizio degli altri.Franco fa questo lavoro volontario per il quale meriterebbe un altro premio. Ma Franco non è un santo. E’ un calabrese caparbio, un uomo dominato da passioni, e perciò a volte unisce allo spirito di servizio una forte ed indomita passionalità che lo fa schierare, parteggiare, combattere e – non di rado – lo fa litigare con alcuni suoi colleghi, con questa o quell’altra parte della categoria. Così si fa dei nemici. Periodicamente incontro qualcuno che me lo indica come il demonio. Ma tutti (più o meno), appena è cessata la furia dello scontro, anche se l’hanno spuntato loro, gli concedono l’onore delle armi.
Insomma, con Franco Abruzzo si può essere d’accordo o in assoluto disaccordo, ma non si può fare a meno di lui, delle sue notizie, dei suoi saggi, delle sue idee e della franchezza con cui le manifesta con assoluto sprezzo del pericolo.
Dunque, insieme ai collaboratori di Ossigeno, gli auguro altri 50 anni di giornalismo e di buone battaglie e riproduco qui di seguito due brani dell’interessante intervista che ha rilasciato a Romano Pitaro in occasione di questo traguardo. Racconta due episodi che hanno segnato la sua vita: l’incontro con Walter Tobagi e le minacce del boss mafioso Luciano Liggio, nel 1975, per le quali Ossigeno lo accoglie nella Tabella dei giornalisti minacciati tributandogli una tardiva ma affettuosa solidarietà.
Alberto Spampinato
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Dall’intervista di Romano Pitaro:
“L’incontro con Tobagi decisivo per la mia vita”
Il destino ha voluto che finissi a Sesto nel 1965-67 per una decisione del direttore del “Giorno”, Italo Pietra. Lavoravo alle pagine della provincia. Dovevo presidiare l’area che coincideva con quella del Tribunale di Monza, il quarto tribunale italiano per intensità di “affari” trattati. Il lavoro nero nei giornali era di moda, anche se circoscritto, perché i giornali si presentavano con 24 pagine e con l’aggiunta delle pagine locali, due. Il praticantato tardava ad arrivare. Mi rivolsi, dopo uno scontro con Pietra, all’Ordine e fui iscritto al Registro. Non sapevo di aver stabilito un primato, quello di primo praticante d’ufficio della storia giornalistica italiana. Poi, da presidente dell’Ordine, nei primi anni 90, credo di aver favorito l’accesso alla professione di almeno 3/4mila “sfruttati”. Il principio dell’uguaglianza, unito a quelli della solidarietà e della libertà, ha sempre animato le mie battaglie politiche e la mia scelta di spendermi nel sindacato, l’Associazione lombarda dei Giornalisti, dove ho incontrato una persona di livello immenso, Walter Tobagi, un sodalizio durato (purtroppo) meno di 4 anni, tra il 1976 e il 1980, quando Walter fu ucciso dalle Brigate rosse. L’incontro con Tobagi è stato decisivo per la mia vita: non potevi stargli al fianco e discutere con lui se non avevi maturato una buona preparazione in vari campi. La sua preparazione sofisticata nel campo dei fenomeni sociali e del movimento sindacale – esemplare è la sua “Storia del movimento studentesco e dei marxisti-leninisti in Italia” (Sugar Editore, Milano 1970) – lo avevano portato a comprendere, con anticipo su tutti, che i terroristi rossi non erano “fascisti” o “compagni che sbagliavano”. Venivano dalle fabbriche, erano militanti dei gruppuscoli extraparlamentari dell’ultrasinistra o anche ex-iscritti al Pci. Lo ha documentato Aldo Forbice (Testimone scomodo – Walter Tobagi-Scritti scelti 1975-80, Franco Angeli, Milano 1989), pubblicando 28 articoli di Tobagi sul lavoro, sull’economia e sul sindacato, e altri 42 sugli anni di piombo, compreso quello famoso dal titolo “Non sono samurai invincibili” (20 aprile 1980). Le Br sono sconfitte dopo la eliminazione della colonna “imprendibile” di Genova: “A voler essere realisti – scrive Tobagi – si deve dire che il tentativo di conquistare l’egemonia nelle fabbriche è fallito. I terroristi risultano isolati dal resto della classe operaia”. Ha annotato ancora Tobagi in quell’articolo: “La fabbrica era diventata il centro di uno scontro sociale che poi ha trasferito i suoi effetti nella società, nei rapporti politici. I brigatisti hanno cercato di inserirsi in questo processo, in parte raccogliendo il consenso delle avanguardie più intransigenti”. Un’analisi lucida che apre gli occhi anche a chi voleva tenerli chiusi a tutti i costi. Un’analisi che rispecchia il suo credo deontologico: “Poter capire e voler spiegare”. (…)
“Cronista minacciato da Luciano Liggio”
…Un altro episodio, che mi ha sconvolto risale all’epoca del processo a Luciano Liggio, il capomafia che aveva organizzato diversi sequestri di persona (Torielli, Montelera) nel Nord Italia. A una domanda del presidente del Tribunale, Salvini, Liggio rispose che quei particolari le aveva scritte “il segretario del Pm” e mi indicò con il dito. In quel momento era a fianco del pm, Giovanni Caizzi. Il processo fu interrotto per un po’ di ore. La vicenda ebbe una larga eco sui Tg e nei giornali (“Cronista minacciato da Liggio”). Qualche giorno prima mi era stata rubata l’auto, una Giulia 1300, nel garage di casa, poi un nostro tipografo era stato bloccato in una via di Trezzano e un tizio dal forte accento siciliano gli aveva detto: “Dite ad Abruzzo che gli spezziamo le gambe”. Risultato: fui allontanato dal Palazzo di Giustizia per ragioni di sicurezza per un periodo di tre mesi. Insomma la mia tra terrrorismo e mafia era diventata una vita pericolosa. Nell’aula del processo Liggio, dopo il furto dell’auto, Nello Pernice, spalla di Liggio, sorrideva e faceva battute indicandomi: “Certo, senza auto, è duro andare in giro”. Anche don Coppola sorrideva, mi puntava gli occhi e diceva: “Sono pulito come l’acqua della Sila”. Lo avevo battezzato: “Il parroco della mafia”.