PIGNATARO M. – Fu il potente e sanguinario boss mafioso di Pignataro Maggiore, “don” Vincenzo Lubrano – consuocero del mammasantissima di Marano di Napoli, Lorenzo Nuvoletta, e alleato di ferro dei “corleonesi” di Totò Riina – a volere nel 2003 la cacciata del giornalista Enzo Palmesano dal quotidiano locale “Corriere di Caserta”, il cui direttore responsabile era all’epoca Gianluigi Guarino. Le accuse formulate dai valorosi magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, dottor Giovanni Conzo e dottoressa Liana Esposito, nell’ambito dell’inchiesta denominata “Operazione caleno” del 2009 contro la cosca Lubrano-Ligato, hanno trovato una conferma nella sentenza emessa in data 28 novembre 2014 dalla seconda sezione penale collegio “C” del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (giudici dottoressa Maria Francica, presidente, Elena Di Bartolomeo e Chiara Di Benedetto) che ha condannato a due anni di reclusione (pena sospesa) un nipote acquisito di “don” Vincenzo Lubrano, Francesco Cascella, imputato di violenza privata con l’aggravante camorristica ai danni del giornalista Enzo Palmesano. Delle due parti offese (Palmesano e l’ex direttore responsabile del “Corriere di Caserta”) solo Enzo Palmesano si era costituito parte civile, assistito dall’avvocato Salvatore Piccolo di Luigi, con studio legale in Sparanise. Gianluigi Guarino, invece, non solo non si era costituito parte civile contro l’imputato Francesco Cascella ma – sentito durante il processo quale parte offesa e testimone – aveva incredibilmente sostenuto (nonostante le accuse della Direzione distrettuale antimafia fossero corroborate da schiaccianti risultanze investigative, tra cui fondamentali intercettazioni ambientali captate dai carabinieri del Comando provinciale di Caserta nella villa-bunker di Lubrano) che Enzo Palmesano non era stato cacciato dal “Corriere di Caserta”, di cui era un collaboratore esterno, per volontà del capomafia pignatarese. Adesso la magistratura inquirente si occuperà della posizione di Gianluigi Guarino in quanto il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, nel dispositivo della sentenza a carico di Francesco Cascella letto in aula, ha fatto sapere di aver deciso la trasmissione delle dichiarazioni dell’ex direttore del “Corriere di Caserta” alla Procura della Repubblica affinché si proceda nei suoi confronti per quanto di competenza. Le motivazioni della sentenza saranno depositate entro novanta giorni. Per ora possiamo far sapere ai nostri pochi ma affezionati lettori che il Tribunale ha altresì condannato Francesco Cascella – maresciallo dell’esercito e attivo pure nel mondo del giornalismo sportivo – al pagamento delle spese e al risarcimento del danno alla costituita parte civile Enzo Palmesano; stabilita infine una provvisionale immediatamente esecutiva a favore di Palmesano di cinquemila Euro.
Il pubblico ministero della Direzione distrettuale antimafia, dottoressa Liana Esposito – che ha voluto assistere personalmente alla lettura del dispositivo della sentenza, nonostante i molti impegni che gli hanno fatto fare la spola per tutta la giornata tra Santa Maria Capua Vetere e Napoli -, in sede di requisitoria aveva chiesto la condanna di Francesco Cascella a due anni e sei mesi di reclusione. Sempre per quanto riguarda i pubblici ministeri della Direzione distrettuale antimafia, nella storia del processo è apparso in udienza anche il dottor Giovanni Conzo, uno degli uomini di punta, a livello nazionale, della battaglia anticlan; fu lui a interrogare il collaboratore di Giustizia Giuseppe Pettrone, di Pignataro Maggiore, che in una lunga e drammatica deposizione affermò senza mezzi termini che la cosca Lubrano-Ligato voleva uccidere Enzo Palmesano e che, intanto, la parola d’ordine del potente e sanguinario clan era di “fargli il vuoto intorno”, isolarlo, mettere tutta la città contro il giornalista “scomodo”. La requisitoria della dottoressa Liana Esposito – contrassegnata da una logica investigativa stringente e di rara intelligenza – ha preso le mosse proprio dallo scenario riferito dal collaboratore di giustizia Giuseppe Pettrone per poi illustrare il contenuto delle intercettazioni ambientali che si sono rivelate una prova schiacciante a carico di Francesco Cascella e dello zio Vincenzo Lubrano, quest’ultimo anch’egli all’epoca iscritto nel registro degli indagati per lo stesso reato (come si è detto, la violenza privata con l’aggravante mafiosa) ma non comparso quale imputato in questo processo perché nel frattempo defunto.
Dal canto suo, il legale di parte civile, avvocato Salvatore Piccolo di Luigi – storico difensore di Enzo Palmesano nelle battaglie legali, sempre e tutte vittoriose, contro la valanga di querele per diffamazione a mezzo stampa di cui è stato oggetto -, oltre a una discussione sintetica ma di ampio respiro giuridico (con alla mano la giurisprudenza della Corte di Cassazione in materia di violenza privata e di aggravante camorristica) ha posto l’accento su una intercettazione ambientale in particolare, quella in cui Vincenzo Lubrano accomunava la figura di Enzo Palmesano all’esperienza tragica un altro giornalista che (espressione testuale di Lubrano intercettata dai carabinieri) “scassava ‘o cazzo”, Giancarlo Siani, assassinato per volontà dei Nuvoletta, imparentati con il boss pignatarese. Come è noto, nel summit mafioso che si tenne a Marano di Napoli per decidere l’assassinio di Giancarlo Siani partecipò, unitamente ai Nuvoletta, il boss Gaetano Lubrano (nel frattempo defunto), marito di una cugina degli stessi Nuvoletta e fratello di “don” Vincenzo Lubrano.
L’avvocato Salvatore Piccolo di Luigi ha tra l’altro sottolineato che dall’intercettazione ambientale si evince che proprio le condanne all’ergastolo che avevano colpito il clan Nuvoletta per l’omicidio del giornalista Giancarlo Siani hanno probabilmente fermato la mano assassina di Vincenzo Lubrano, preoccupato dalla certezza che l’omicidio di un altro cronista (appunto Enzo Palmesano) avrebbe portato alla completa disarticolazione della famiglia mafiosa a seguito delle indagini che sarebbero state avviate dalla Direzione distrettuale antimafia sulla cosca che tiene in pugno Pignataro Maggiore, famigerata città conosciuta quale “Svizzera dei clan”. Lubrano scelse (per eliminare Enzo Palmesano, facendolo cacciare dal quotidiano cui collaborava) la soluzione mafiosa meno pericolosa e comoda per sé e per il suo clan: mandò il suo messaggio intimidatorio all’allora direttore del “Corriere di Caserta” – come testimoniato dalle intercettazioni ambientali nella villa-bunker di Lubrano – tramite Francesco Cascella. E quella di “don” Vincenzo Lubrano era evidentemente (come nel film “Il Padrino”) una “proposta che non si poteva rifiutare”. Effettivamente – come era nei desideri di Lubrano e del suo messaggero Cascella – l’allora direttore del “Corriere di Caserta” pose fine alla collaborazione di Enzo Palmesano, le cui inchieste giornalistiche davano fastidio alla camorra, erano una spina nel fianco della cosca mafiosa pignatarese. Francesco Cascella è stato assistito dall’avvocato Giuseppe Romano, storico difensore di “don” Vincenzo Lubrano tra l’altro nel processo per l’omicidio di Franco Imposimato (fratello del magistrato Ferdinando Imposimato) dove il boss pignatarese fu condannato all’ergastolo unitamente al cassiere della mafia siciliana a Roma, Pippo Calò, capo della “famiglia” di Porta Nuova a Palermo e alleato dei “corleonesi”.
Rassegna stampa
articolo di Rosa Parchi
da pignataronews.myblog.it