“Storie di solitudini e di luce” in Francesco Biamonti: la nuova recensione di Giovanni Nacca

“Storie di solitudini e di luce” in Francesco Biamonti: la nuova recensione di Giovanni Nacca

Ci sono scrittori che con la loro opera hanno finito col diventare tutt’uno coi luoghi in cui sono vissuti, sino ad assumere quel contesto paesistico come tono espressivo, come linguaggio. Uno di questi è senz’altro l’imperiese Francesco Biamonti (San Biagio alla Cima, 1928 – 2001), autore che, pur nell’elegante ritrosia a rincorrere celebrità e mondanità, oggi viene meritatamente riscoperto e riletto nella sua produzione, sia narrativa che critica. Dopo l’esordio felice con L’angelo di Avrigue(1983) pubblicato per interessamento di Nico Orengo – che lo fece conoscere a Italo Calvino, allora responsabile della narrativa di casa einaudiana – Biamonti si ripropose con Vento largo nel 1991, riconfermandosi scrittore e personaggio dalle notevoli qualità artistiche e umane.

Protagonista della storia è Varì, uomo solitario, sfiancato dalla vita, che ama rifugiarsi tra i terrazzi di ulivi, mimose e mandorli del suo podere dove s’aggira malinconicamente come testimone di una civiltà contadina che va scomparendo. A tempo perso svolge pure l’attività di passeur, su invito della bella Sabél, conducendo al confino francese clandestini per sentieri impervi e pericolosi. I personaggi appena abbozzati – come su tela da esperta mano d’artista – sono silenziosi, a tratti misteriosi, addirittura ‘eroici’ nel generale dissolvimento che li circonda, dove i piccoli centri di Luvaira, Airole, Aùrno, incastonati come gemme spente in questa parte di Liguria, somigliano a stanche sentinelle poste a guardia di un mondo che precipita irreparabilmente: «Aùrno, paese di arenaria che muore … ce n’è voluta di pazienza nell’azzurro per alzare tutti questi muri».

Anche in Vento largo la luce esplode in ogni sua sfumatura e vibra, istante per istante, nel paesaggio aspro e scosceso dell’entroterra ligure, nell’estremo suo lembo di Ponente, al confine con la Francia, da cui si osserva e s’avverte – comunque e sempre – la presenza del mare, quel mare da cui nasce e si propaga quel vento mutevole, discontinuo, quel vento che come la vita spinge ora da una parte ora dall’altra, mai nella stessa direzione. Una metafora della vita che non ha niente di lineare, niente di stabile, nel cui svolgersi si evidenzia la condizione erratica dell’umanità stessa. L’apoteosi di luce viene riprodotta con perizia artistica pari a quella degli amici pittori frequentati, tra cui Ennio Morlotti con cui stringe rapporti di fraterna amicizia, dedicandogli, tra l’altro, numerosi interventi critici. Questa affinità artistica si coglie nella straordinaria capacità dello scrittore di registrare, in una combinazione cromatica, l’intensità della luce in una scala tutt’altro che esigua: «… sotto il suo uliveto la terra arida era attraversata da luccichii di pietre conchillifere», «raffiche di luce opalescente, staccatesi dal largo [del mare] calcinavano il sentiero» o ancora, «un’ombra scattò nel fuoco minerale delle rocce, nel grandinio di luce», «i gabbiani … sorvolavano le rocce. Intonacati d’aria andavano al mare ancora marmoreo». Ma anche nel buio della notte, lo scrittore cattura lontani bagliori, deboli riflessi, lucori, riverberi, luminescenze, tali da affermare che «il buio non era mai fitto ad Aùrno», «le case, disabitate, … dorate dal silicio ferroso, splendevano nella sera», «nel blu notte uniforme, passavano … labili ombre d’alluminio» o che era possibile guardare «il cielo, roso dalle stelle, lontano, dove si alzava il mare».

La scrittura di Biamonti è, volutamente, scarna, una scrittura che tende alla sottrazione, all’essenziale, liberandosi di ogni inutile peso, trovando la ragione più autentica in una densità di significazione poetica, al limite dell’aforisma, come quando Varì per commentare la precarietà della vita afferma che «siamo tutti sull’imbarcadero» pronti per il lungo viaggio, o nel sentenziare, sulla funzione del dialogo, che «parlare è come parlare al vento». Coerente con la silenziosa ricerca interiore intrapresa, l’autore ribadiva in una rara intervista del 1993 a Francesco Improta: «la parola per essere credibile deve affondare sempre nell’esistenzialità altrimenti si trasforma in chiacchiera priva di qualsiasi valore». I dialoghi, come i pensieri, sono quindi rapidi, improvvisi, a volte frammentari, quasi come colpi di vento che restano a fluttuare in una trama di colori e di silenzi.

Il romanzo è attraversato da una disgraziata umanità errante (rumeni, arabi, turchi, ecc.) che sembra preda di un viaggio interminabile, senza principio, senza fine, dove tutti hanno da scontare un pedaggio per continuare a vivere. Nel generale senso di resa, nel roccioso disincanto di Varì, traspare evidente l’appartenenza di Biamonti a quel ‘fronte ligure’, che trova in Boine e Montale la punta di diamante nel cogliere l’angoscia del mondo, quel “male di vivere” che ha attraversato tutto il Novecento. E non solo.

Un libro sul sofà. Luglio 2016.

a cura di Giovanni Nacca

Rubrica mensile su un libro da leggere o rileggere.

da http://www.pignataromusica.it/

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