Nefele, una giovane nube, è amante di Issione; preoccupata mette in guardia l’amato dall’inviolabilità di una legge universale a cui bisogna ubbidire, ma Issione sembra non ascoltare le sue parole e crede di poter dominare il destino. L’audacia condurrà il giovane nel Tartaro e lo condannerà a un supplizio eterno. Un mito che affonda le sue radici nei tempi primordiali in cui gli Dèi olimpici non illuminavano ancora gli uomini con la loro luce risplendente e il mondo era dominato dal caos titanico. Un mito che narra una vicenda antichissima, tanto arcaica da collocarsi al di fuori della storia e, proprio per questo, capace di spezzare la gabbia del tempo per poter fluire eterea nella realtà oscura delle anime. Un racconto antico e contemporaneo allo stesso modo, soprattutto se a plasmare le forme del mito poetico che si esprime attraverso le parole di Nefele e Issione è la potenza narrativa di Cesare Pavese. La scena dei due amanti è tratta da “Dialoghi con Leucò” (Adelphi, 226 pagine, 18 Euro), ristampa di una delle opere più affascinanti e controverse di Cesare Pavese, pubblicata per la prima volta nel 1947.
Una data emblematica che può aiutare a capire perché il libro venne accolto con sospetto: l’Europa era appena uscita da una guerra devastante che aveva seminato milioni di morti, un conflitto agitato e stimolato da ideologie che spesso avevano utilizzato riferimenti espliciti al mito per giustificare politiche razziali e atrocità. E “Dialoghi con Leucò” è una ricerca nei territori del mito greco antico e una rappresentazione poetica del suo potere di influenzare nel profondo anche le angosce e le esperienze dell’uomo moderno. Questo libro è formato da 27 brevi racconti in forma di dialogo con coppie di protagonisti presi dalla mitologia greca di volta in volta diversi, sia divinità sia esseri mortali. Ogni racconto cela un argomento di fondo come l’amore, l’amicizia, la morte, il destino; e il mito viene diviene anima del logos, manifestazione del profondo e rivelazione della realtà. Cesare Pavese sin dal 1933 aveva cominciato a leggere Frazer e le opere di altri antropologi che negli stessi anni avevano aperto indagini sul mito, sulle sue forme e sulle sue funzioni. Testi poco noti in Italia che di li a poco sarebbe andati a finire nel catalogo di quella che è conosciuta come “Collana Viola” Einaudi, nata nel 1948 e cioè solo l’anno successivo alla pubblicazione di “Dialoghi con Leucò”. La collana, il cui vero nome era “Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici”, aveva quali curatori Cesare Pavese ed Ernesto De Martino e fu in un certo senso la porta attraverso la quale giunsero in Italia le opere di Jung, Kerenyi, Dumezil, Eliade. Tutti nomi che spesso suscitavano la disapprovazione e il sospetto delle élites culturali italiane, le quali in gran parte facevano riferimento al Pci: molti degli autori pubblicati nella “Collana Viola” erano infatti considerati, al pari di Cesare Pavese, “spacciatori di irrazionalità” e questo conflitto si trasferì anche nel rapporto tra i due curatori della collana. Ma in “Dialoghi con Leucò” Cesare Pavese aveva espresso il suo pensiero in modo sorprendentemente chiaro anticipando tali polemiche: il volume si apre con una frase che è un vero e proprio manifesto: “Potendo si sarebbe volentieri fatto a meno di tanta mitologia”. Potendo, appunto. Ma non era e non è possibile perché “il mito – continua Pavese – è un linguaggio, un mezzo espressivo – cioè non qualcosa di arbitrario ma un vivaio di simboli cui appartiene, come tutti i linguaggi, una particolare sostanza di significati che null’altro potrebbe rendere”. “Dialoghi con Leucò” è la dimostrazione di come il linguaggio mitico come mezzo espressivo fosse ancora indispensabile e in grado di parlare all’animo più profondo dell’uomo del XX secolo.
Il 27 agosto del 1950 Cesare Pavese decise di porre fine alla sua esistenza terrena, si chiuse nella stanza 346 di un albergo di Torino (“Hotel Roma”) e ingerì una dose mortale di sonnifero. Nella camera c’era anche “Dialoghi con Leucò” sul cui frontespizio Pavese aveva scritto: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”. All’interno del libro un foglietto con delle frasi, una delle quali tratta dal dialogo “Le streghe”, che recita: “L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo di immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia”. Cesare Pavese quella notte decise di raggiungere la dimensione caotica e primordiale popolata dai Titani lasciando un ricordo indelebile, forse voleva tentare di essere immortale al pari degli Dèi dei miti che tanto gli avevano parlato.
Massimiliano Palmesano