Alessandro Barbero ormai è un’icona pop della divulgazione storica, sono in moltissimi quelli che hanno letto almeno un suo libro o seguito una sua conferenza, dal vivo o in rete. Il professore ha il grande merito di aver dato nuovo volto al Medioevo nell’immaginario comune; e il libro “Donne, madonne, mercanti e cavalieri – Sei storie medievali” (Laterza, VII-129 pagine, 9,50 Euro) è una delle massime rappresentazioni del suo stile divulgativo. Fedele seguace della scuola degli “Annales”, innamoratosi della storia medievale dopo aver letto al liceo “La società feudale” di Marc Bloch; ha portato per mano tantissimi italiani in viaggio in una Età di Mezzo molto meno buia di quanto avessimo mai potuto pensare, sulle orme del suo maestro: soffermandosi sul fattore umano molte volte trascurato dalla storiografia, troppo concentrata su date ed avvenimenti e poco sulla psicologia delle testimonianze, sul modo di essere al mondo dei protagonisti della storia, cioè gli uomini e le donne.
In questo volume Alessandro Barbero racconta sei personaggi illustri, tre uomini e tre donne; il primo è Salimbene da Parma: un frate che “conosce praticamente a memoria” la Bibbia, in grado così di essere pastore di anime nel migliore dei modi, infatti “i fedeli sono pieni di dubbi e ci deve essere qualcuno che sappia rassicurarli”. Attraverso la vicenda di Salimbene, il capitolo iniziale ci fa capire “cosa c’è nella testa di un frate del Duecento” non dal punto di vista strettamente teologico, ma nella maniera più umana possibile, nei suoi rapporti con gli altri frati e tutto ciò che lo circonda; Alessandro Barbero lo dipinge come “un intellettuale arrogante, sicuro di appartenere a un’élite di maestri che hanno le risposte a tutto e che devono predicare, parlare e farsi ascoltare”.
Se questo era un frate, come sarà stato un mercante? Dino Compagni ne sarà l’esempio: vissuto tra Duecento e Trecento, arrivato fino a noi grazie a un piccolo libro in cui “ha voluto raccontare i fatti importanti accaduti a Firenze quando non solo vi abitava”, insistendo sul fatto che “era anche un uomo che contava qualcosa”. Dino Compagni in un primo momento non pensa di scrivere qualcosa da lasciare ai posteri, dato che immaginava “che altri scrivesse”, ma non fu così; “la voglia di scrivere, di dire la sua, si fa sempre più forte, e alla fine si decide”. È da notare che non è comune un mercante il quale scriva nel Medioevo una cronaca; scrivere era una mansione esclusiva, tante volte, di frati come Salimbene. Dino Compagni è il veicolo per il professor Alessandro Barbero per farci conoscere la Firenze medievale da un altro punto di vista, quello di un imprenditore che legge a suo modo la politica (della quale è protagonista), il rapporto conflittuale tra una nascente borghesia mercantile e la nobiltà armata medievale.
L’ultimo dei tre uomini è Jean de Joinville, un cavaliere. C’è da tener conto che un uomo d’armi dedito alla scrittura è molto raro: i cavalieri, troppo impegnati nel mestiere delle armi, non si cimentavano nelle lettere se non eccezionalmente. Il nostro cavaliere accompagnò nel 1248 san Luigi (re di Francia) alla crociata. “Quello che abbiamo difronte, dunque, è un cavaliere crociato. Non c’è da stupirsi, quindi, se nella sua visione del mondo la religione occupa un posto fondamentale”. Jean de Joinville è il classico cavaliere medievale, proprio come quelli descritti dalle epopee, un uomo d’onore, profondamente cattolico e sostenitore delle gerarchie. Ma tramite il suo scritto possiamo scorgere altri aspetti della vita cavalleresca molte volte trascurati in favore di un’immagine idilliaca dei militari dell’epoca, ad esempio: “nel Medioevo gli adulti giocavano moltissimo. In parte sono gli stessi giochi che facciamo noi oggi: gli scacchi, la dama, il backgammon”. “Cavalieri e dame giocano a mosca cieca, a nascondino. E nessuno si stupisce, perché gli adulti non si vergognano di divertirsi come bambini: persino durante la crociata”. Alessandro Barbero attraverso la voce di Jean de Joinville racconta che “il conte d’Eu era un tipo molto ingegnoso; pranzava anche lui all’aperto con i suoi cavalieri, e aveva fabbricato una piccola catapulta, e con questa catapulta in miniatura dal suo tavolo lanciava delle pietre verso il nostro (quello di Joinville), e ci fracassava i bicchieri. E Joinville racconta questa scena con grande piacere”.
“Raccontare gli uomini del Medioevo tutto sommato è abbastanza facile” specifica l’autore nel primo rigo del capitolo dedicato a Caterina da Siena, “con le donne non è la stessa cosa. Pochissime donne del Medioevo hanno scritto di sé”; santa Caterina è una delle mistiche più importanti di tutti i tempi ed è “forse la donna del Trecento di cui sappiamo più cose”. Per capire a pieno il personaggio basta tener conto del fatto che le donne in questa fase storica sono sempre considerate in funzione di un uomo: figlie di, mogli di, amanti di; santa Caterina invece è stata una personalità molto influente che addirittura si permetteva il lusso di scrivere al Papa in un momento delicatissimo della Chiesa Cattolica (in seguito ad uno scisma il papato in quegli anni si trasferì ad Avignone). “C’è una lettera in cui Caterina scrive al Papa e protesta perché troppi cardinali e troppi vescovi sono dei politicanti che pensano solo ai loro interessi anziché fare il bene della collettività”; insomma una donna dalla grande influenza politica, caso del tutto eccezionale per una che non era figlia o moglie di un re.
Dopo la donna più illustre dell’Età di Mezzo il professore ci porta a conoscere “probabilmente la meno conosciuta” delle tre: Christine de Piza, “l’unica delle nostre tre donne medievali che non sia stata fatta santa, l’unica che non sia morta giovane, l’unica che da molti punti di vista è stata una donna ‘normale’”; Christine è stata “la prima donna che ha concepito se stessa come scrittrice di professione”. Dopo essere rimasta vedova deve provvedere al sostentamento della sua famiglia, decidendo di non risposarsi e quindi di farsi mantenere da un nuovo marito. “Ma perché parliamo di Cristina? In fondo, tante altre vedove dell’epoca affrontavano la stessa trafila”, e Barbero continua: “Cristina legge, anzi appena rimasta vedova una delle cose che scopre e che attenua un po’ il suo dolore di essere rimasta sola è che ha un po’ di tempo per sé”. Iniziando a dedicarsi alla lettura e alla scrittura per sé stessa ad un certo punto viene letta da altri e qui inizia la sua nuova vita grazie anche ai legami della sua famiglia con la corte del re di Francia, “ha le conoscenze giuste”.
Il libro di conclude con la donna più nota del Medioevo: la Pulzella d’Orleans, Giovanna d’Arco. “Parte del fascino di Giovanna sta nel fatto che è una ragazza qualunque, che viene dal nulla. In realtà nell’immaginario popolare queste origini modeste sono state esasperate: si è parlato di Giovanna come di una pastorella, ma lei non lo è mai stata, neanche per gioco”. La giovane ragazza – a capo dell’esercito francese in una guerra dei Cent’anni che sembrava concludersi a favore degli inglesi -, morta poi sul rogo, conclude le pagine di un libro bellissimo, impossibile da leggere senza immaginare il professor Barbero nelle sue esposizioni fatte di accenti marcati e gestualità caratteristiche. Un volume leggero ma allo stesso tempo molto denso che rappresenta in toto lo stile del professore di Storia medievale, personalità amata da tutti gli appassionati di Medioevo.
Dario Palmesano