Il libro di Goffredo Fofi, “Fellini anarchico” (Elèuthera, 120 pagine, 13 Euro), ha per noi e per i nostri pochi ma affezionati lettori un motivo di pregio in più perché tira in ballo “primitive Mater Matuta”, facendo andare il pensiero alla straordinaria collezione delle “Madri” che i visitatori del “Museo Campano” di Capua ben conoscono. “Appartengono ai ricordi del regista – scrive tra l’altro Goffredo Fofi – la Roma degli anni del fascismo, il teatro d’avanspettacolo, la trattoria all’aperto, la pensione ‘famigliare’ con una super-mamma che è anche eco di primitive Mater Matuta (…)”.
L’autore di questo interessante libro, Goffredo Fofi (Gubbio 1937), si è occupato di critica cinematografica e letteraria, ha diretto e fondato riviste di interesse culturale e politico, ha scritto molti libri e ha partecipato a molte esperienze di intervento sociale ed educativo dalla metà degli anni Cinquanta a oggi. Nell’introduzione al volume si legge quanto segue: “Dire Fellini anarchico è una forzatura? Forse lo è pensando ai film degli anni di splendore – ideologicamente incerti nonostante la solidità e la forza del quadro sociale affrontato, la loro immaginifica ricchezza, la loro formidabile vitalità, la crudeltà profonda dell’insieme anche se superficialmente colorata – ma lo è sempre di meno via via che Fellini ha sentito l’urgenza di spingersi più a fondo, l’insoddisfazione del presente, il bisogno di scavarne il senso e la paura delle conclusioni a cui tutto questo avrebbe potuto portarlo e lo ha infine portato. Il giudizio si fa più profondo e insieme più amaro, ma si fa anche più limpido. Più amaro e perfino più tragico. È sul fallimento di una civiltà che infine Fellini ragiona negli ultimi film: dell’umanesimo, della democrazia. Ed è qui che sentiamo Fellini più vicino, amaro della nostra stessa amarezza. Fino alla jacovittiana ‘sagra dello gnocco’ che è il quadro più spietato dell’imbecillità che ci sovrasta – la società del consumo e, più tardi, del coronavirus… Due poveri sbandati e sciocchi, marginali per condizione ma anche per scelta, sono gli unici a volere e sapere ascoltare ancora, leopardianamente, ‘la voce della luna’. Il giro è chiuso, e sì, Fellini è arrivato a convinzioni che sono ormai pienamente e saldamente anarchiche. Disperatamente anarchiche. ‘Una forma di disperazione creativa’ definì l’anarchia Colin Ward, il più chiaro dei suoi teorici. A questo Fellini era ormai giunto, ed è a questo punto che la sua parabola si è conclusa”.
Furono per primi due francesi, il critico André Bazin e più tardi lo scrittore Daniel Pennac, a parlare di un “Fellini anarchico” e cosciente di esserlo. D’altronde il suo cinema – sempre attento ai marginali, di cui racconta i confusi tentativi di rivolta e la fatica di vivere – si è avvalso di geniali sceneggiatori come Ennio Flaiano, Tonino Guerra o Bernardino Zapponi, alcuni dei quali dichiaratamente anarchici. Ed è indubbio che anche l’humus romagnolo e il giovanile confronto con il fascismo abbiano influito sulla sua visione della società, come risulta evidente in “Amarcord”, il suo film più autobiografico. Ma la diversità felliniana è altrettanto evidente in capolavori come “Otto e mezzo” o “La dolce vita”, in cui il regista prefigura la mutazione antropologica in atto in Italia, sancendo al contempo la sua irrecuperabilità di artista a un qualunque ordine borghese. Sono però le sue ultime opere – “Satyricon”, “Casanova” e “La voce della luna” – quelle in cui la narrazione si fa metafora e giudizio, rendendo infine esplicita l’irriducibile distanza di Fellini da una società che non a caso ci mostra nella sua degenerazione festaiola e conformista, nell’euforia consumista della “sagra dello gnocco”.
Red. Cro.