FORMIA – Vi proponiamo l’articolo che il giornalista Salvatore Minieri ha scritto per “Informare”. Si anticipano i temi che saranno al centro del suo nuovo libro:
FORMIA, ERNESTO BARDELLINO IN CONSIGLIO COMUNALE
Riappare il capofamiglia Ernesto e lo fa nel corso di un Consiglio Comunale. La trentennale narrazione criminale del sud Pontino sembra destinata a non finire mai.
Una montatura di occhiali è solo una montatura. Potrà costare mezzo stipendio, ma resta pur sempre una montatura per due filtri da vista. D’oro no, quelle negli anni ’70 le usavano solo gli avvocati e gli uomini della Procura, gente che appariva spesso, magari anche sui canali nazionali. E l’oro, intorno alle lenti da vista, esaltava lo sguardo, lo caricava di solide attese future. Per questo motivo Ernesto Bardellino aveva deciso di tenersi quegli occhiali in tartaruga, con quella terribile montatura che faceva peso su tutta la faccia. Ma, almeno, non lo avrebbero scambiato per “uno della Procura”, come diceva lui. Lo pensa dalla fine degli anni ’70, da quando la faida tra il clan del fratello Antonio contro Raffaele Cutolo costrinse tutta la famiglia Bardellino e il cascame dei conniventi e fiancheggiatori a trasferirsi a Formia, con una tradotta blindata persino da una scorta di auto della Polizia.
Da quel 1979, fino alla fine degli anni ’90, i Bardellino hanno cambiato radicalmente fisionomia, soprattutto morale, a un litorale, alla gente che lo ha sempre vissuto come ultimo taglio territoriale di un turismo sostenibile, di una vita, tutto sommato, lontana dall’infuocato ventennio di piombo camorrista che si consumava in Campania. Era soltanto una quinta scenica di finzione perché, nel Lazio, i Bardellino hanno perfezionato un laboratorio di criminalità imprenditoriale unico nel suo genere.
Bastò trovare gli appoggi giusti. Bastò individuare i colonnelli ai quali affidare un esercito che aveva molto di annibalico in quella calata da San Cipriano d’Aversa verso il basso e virginale Lazio.
Tre anni, poco più di trentasei mesi per cambiare faccia a quella zona, per estirpare del tutto quel poco di serenità che canneti e spiagge ancora poco frequentate potevano riflettere nel sentire collettivo della Riviera di Ulisse. Ernesto Bardellino aveva registrato, alla fine di quel fatidico 1979, la Immobiliare Tirreno, la prima macchina edilizia che avrebbe spazzato via le piccole pinete a strapiombo sul mare e le meravigliose aree marine ancora incontaminate, tra Scauri e Gaeta.
Con Bardellino, figuravano – quali soci fondatori – Alberto Beneduce, Benito Beneduce e Giuseppe Natale. Grazie alla bandiera dell’Immobiliare Tirreno, il clan cementificò la zona di via Unità d’Italia a Vindicio, un paradiso naturale a due passi da Formia, trasformato in centro residenziale con il nome di Solemar, altra creatura imprenditoriale del carniere bardelliniano, autorizzata dalla giunta allora guidata dal sindaco Tommaso Parasmo.
A fare da mediatore tra la famiglia Iannarilli, proprietaria dei terreni acquistati da Bardellino, fu Clemente Carta, un ipercinetico camaleonte della politica nazionale, nato e cresciuto a Formia con lunghi passaggi all’interno del consiglio comunale. Ma Carta era solo un pedina politica, perché a gestire materialmente il peso della “colonia formiana” della Bardellino spa c’era Alberto Beneduce.
Beneduce era uno che, dietro le villette in costruzione a Formia e sull’industria del sole, nascondeva ben altro business di vita. Cocaina. Formia stava diventando un golfo che traboccava coca.
Colpa di Beneduce, ricco, ricchissimo narcos, nato a Sant’Anastasia, la peggiore periferia di Napoli, ma arrivato a trattare di persona, direttamente con Pablo Escobar.
Un boss di primo piano, piazzato in quella società da Ernesto Bardellino, perché il clan di Antonio doveva tanto a Beneduce.
Qualche anno prima, si era fatto le ossa nel carcere di Rebibbia e, tra l’ora d’aria e qualche colloquio in parlatorio con gli emissari del suo grande amico Michele Zagaria, Alberto Beneduce aveva conosciuto alcuni pezzi da novanta del cartello di Medellìn. Fu quella la svolta della carriera criminale del napoletano, portato a Formia per far funzionare meglio il traffico internazionale di droga e le estorsioni.
Con loro, ma soprattutto con le loro “opere” disseminate sul territorio, il litorale del Basso Lazio è cambiato completamente. Come nel caso del Seven Up, la più grande discoteca d’Europa, con i suoi seimilacinquecento posti e scenografie più impressionanti di quelle di Cinecittà, tra robot automatizzati e luccicanti su muri alti venti metri, zone con acqua di mare che ti scorreva sotto le gambe e tante di quelle piste da ballo da doverti orientare con una cartina che ti fornivano all’ingresso. Quel “delirio ad occhi aperti”, come lo chiamavano i ragazzi che all’alba uscivano dai maestosi cancelli delle piste esterne, saltò in aria la notte del 3 agosto 1985, a seguito di un malfunzionamento ai sistemi che dovevano far attivare uno spettacolo pirotecnico. Almeno questa fu la causa secondo le perizie. Ma tutto succedeva pochi mesi dopo i raid di sangue che Antonio Bardellino aveva portato a Marano contro Ciro Nuvoletta (ucciso dal boss sanciprianese con un colpo in faccia) e a Torre Annunziata, dove gli uomini di Bardellino eseguirono una mattanza agghiacciante contro il clan Gionta. Poi l’esplosione alla discoteca che era proprio del più fidato manager di Bardellino, quell’Aldo Ferrucci che ancora oggi custodisce il crisma di tre decenni di segreti criminali a Formia. La mattina del 15 luglio di quest’anno, Ernesto Bardellino si è presentato in Consiglio Comunale a Formia, fissando negli occhi gli amministratori. “Cercavo solo il mio medico – ha detto don Ernesto – io sono invalido al cento per cento per una cardiopatia e il dottore mi ha anche dato dell’acqua, invitandomi a sedere dove può stazionare il pubblico durante le sedute dell’Assise formiana”. Qualcuno, dopo l’uscita di Bardellino, ha parlato di presenza inquietante, ma il fratello del boss Antonio ha replicato di essere incensurato e di non sentirsi un’immagine negativa della città. Di quella città che gestiva con il narcos Beneduce e i colletti d’argento come Aldo Ferrucci. La montatura degli occhiali, stavolta, era d’oro, come il vistoso orologio che Bardellino portava al polso nell’apparizione del 15 luglio. Sono cambiati gli emblemi dello stile, ma Formia sembra essere ferma a quel 1979. In tre decenni nessuna delle ferite cittadine è riuscita a rimarginarsi, anzi, sembra che la cauterizzazione del tessuto sociale sia stata solo materia per spot turistico-mediatici, roba da circo estivo e offerte di fitto in riva al mare. Sì, perché Formia è la città dove molti locali e alberghi erano, fino a qualche mese fa, di Cipriano Chianese, il re delle discariche , vicino agli ambienti dei Servizi deviati che tanto ne sanno di intombamento illegale di rifiuti tossici. Formia, la città dove Katia Bidognetti , figlia prediletta di “Cicciotto ‘e mezzanotte”, frequenta un noto e costosissimo locale. Il padre dell’avvenente ragazza è quel Francesco Bidognetti che, durante il processo Spartacus, mandò i messaggi minatori a Roberto Saviano, Rosaria Capacchione e al pm Raffaele Cantone
E’ la città dove c’è la splendida villa di Mario Cosentino, fratello di Nicola, per decenni vero capo di tutti i sistemi della Campania. E’, soprattutto, la riviera dove la cittadella di Ernesto Bardellino (cinque appartamenti, quindici locali, servizi) è stata sequestrata, confiscata e poi affidata al Comune. Ma nessuno vuole metterci piede, nemmeno le ditte per eseguire lavori di ristrutturazione. Fanno paura quelle strutture. Forse più dell’ex proprietario che il 15 luglio pomeriggio si è seduto davanti a tutti i consiglieri comunali con i suoi nuovi occhiali. Quelli con la montatura d’oro.
Rassegna Stampa
articolo di Salvatore Minieri
da “Informare”