Per il nostro spazio decicato ai libri e la musica, arriva “Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia

Per il nostro spazio decicato ai libri e la musica, arriva “Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia

Nel 1961 Leonardo Sciascia (Racalmuto 1921- Palermo 1989) pubblica “Il giorno della civetta”, ispirato alla vicenda del sindacalista comunista Accursio Miraglia, ucciso nel 1947 dalla mafia a Sciacca.

Al capitano dei carabinieri Bellodi, emiliano di Parma ma di stanza in un paesino della Sicilia, viene affidata l’indagine sull’omicidio di Salvatore Colasberna, presidente di un’impresa edilizia, ucciso mentre saliva sull’autobus. Sul luogo del delitto il comandante non riesce ad interrogare nessuno perché sembrano tutti spariti e, chi c’è, finge di non essersi accorto dell’omicidio. Dopo ore di interrogatorio, un venditore di “panelle” si ricorda di aver sentito degli spari; nel frattempo a Roma, un uomo politico chiede ad un membro del proprio partito di far trasferire Bellodi affinché non faccia luce su quello che qui si capisce essere un omicidio mafioso. Grazie ad un proprio informatore, Bellodi conosce i nomi del mandante e dell’omicida e li interroga insieme al padrino don Mariano Arena ma l’interrogatorio non porta a nulla. Parlando con il capitano, don Mariano pronuncia il discorso che introduce per la prima volta il termine “quaquaraquà”; infatti dice: “Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, che mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini… E invece no, scende ancora più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi… E ancora più in giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere con le anatre nelle pozzanghere che la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre… Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo…”.

Mentre il capitano Bellodi è a Parma in licenza, viene a sapere che le accuse da egli fatte sono state smontate e gli indagati scagionati grazie ad un alibi di ferro costruito da influenti personaggi politici. A quel punto, il capitano si rende conto che “in Sicilia le nevicate sono rare”, ma, nonostante tutto, egli ama quella terra e ci tornerà, a costo di rompersi la testa!

Il romanzo si chiude senza dare una risoluzione al caso e facendo comprendere che è difficile far trionfare la giustizia in luoghi in cui omertà e corruzione dominano (“…perché il mestiere di servire la legge della Repubblica e di farla rispettare, diventava ogni giorno più difficile”). Bellodi stesso infatti ammette che “è inutile tentare di incastrare nel penale un uomo come costui: non ci saranno mai prove sufficienti, il silenzio degli onesti e dei disonesti lo proteggerà sempre. Ed è inutile, oltre che pericoloso, vagheggiare una sospensione di diritti costituzionali.”

Nel 1961 il romanzo fece scalpore e ricevette molte critiche a causa degli argomenti trattati. Se uscisse oggi, molto probabilmente, sarebbe soltanto un altro romanzo sull’omertà dei siciliani e sui rapporti Stato-mafia…nulla di sconvolgente, dopotutto!

Alessia Di Nardo


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