La notte dei morti viventi riporta Napolitano sul Colle e distrugge definitivamente il Partito Democratico

La notte dei morti viventi riporta Napolitano sul Colle e distrugge definitivamente il Partito Democratico

ROMA – Con la ri-elezione al Quirinale del quasi novantenne Giorgio Napolitano, l’Italia somiglia sempre di più all’impero Austro-Ungarico di inizio novecento, così come lo descriveva Joseph Roth nel romanzo “La marcia di Radetzky”.Un gigante dai piedi d’argilla, guidato da un autocrate (Francesco Giuseppe) che racchiudeva nella sua figura l’idealizzazione di tempi passati e la decadenza di una realtà politica e di un sistema di valori ormai superati. Così il riconfermato Presidente sembra incarnare, nello stesso tempo, tramontate suggestioni della politica che fu e una realtà fatta di inciucio mascherato da dialogo. Napolitano, da sempre burocrate di partito e garante dei poteri forti, sicuramente non potrà fare qualcosa di diverso da quello che ha già fatto nel settennato appena trascorso: proteggere la casta, difendere i poteri finanziari e tenere lontane quelle istanze che arrivano dalla gente, le quali potrebbero destabilizzare lo status quo tanto caro a re Giorgio.

Il trambusto di questi giorni, però, a fronte di una società che sta cambiando e che chiede una diversa sensibilità su temi come la giustizia sociale e la salvaguardia dei beni comuni, oltre che una maggiore democratizzazione della vita pubblica, ha reso ancora più scandalosamente chiaro il sistema dei partiti di questa Seconda Repubblica. Giusto per convincere gli scettici e gli ingenui che ancora alle primarie avevano creduto in una “rivoluzione democratica dall’interno”, infatti, il Partito Democratico e i suoi leader (vetero e per niente comunisti), dopo anni di inciuci latenti (almeno al grande pubblico), hanno preferito scoprire le carte e non nascondere più il profondo “affetto” per Berlusconi. “Schiavi” di quella questione morale di berlingueriana memoria che ancora li nobilitava sulla scena politica, i maggiorenti democratici hanno preferito gettare la maschera e rivelare di identificarsi con tutto quello che il berlusconismo rappresenta: potere, interessi e attaccamento alla poltrona.

Dopo la nascita e il tramonto delle candidature alla carica di Presidente della Repubblica, c’era da seguire una delle due vie che ormai si erano delineate. La prima era quella che è stata tracciata dal Pdl e da Scelta Civica (oltre che dai poteri forti): la riconferma di Napolitano. La seconda era quella tracciata dai grillini, con l’appoggio a Stefano Rodotà. Quest’ultima avrebbe segnato il riavvicinamento della politica alla gente. Non perché Rodotà era il nome proposta dai Cinque Stelle, ma perché il professore ha la fama di essere uomo libero che da vari anni sostiene le lotte a tutela dei beni comuni. Il Pd, invece, ha preferito rinnegare una storia che parte da lontano e deludere quell’elettorato che aveva dato un’ultima chance ad una gerontocrazia logora e autoreferenziale.

La rappresentazione plastica di questa situazione è apparsa chiara un minuto dopo la proclamazione di Napolitano: le lacrime di Bersani e il riso beffardo di Berlusconi. In quel pianto quasi infantile, non ci sono soltanto due mesi di errori a ripetizione, ma la consapevolezza di una incapacità patologica di governare un Paese. In quel riso, invece, l’idea di averla spuntata ancora una volta, di aver “corrotto” gli oppositori e di avere ottime chance di rivincere al prossimo giro. Di fronte a tal ciarpame, diventa un esercizio di retorica dire che i Cinque Stelle, fatti anche di populisti come Grillo e di incompetenti (politicamente parlando) come la Lombardi, diventeranno sempre di più il punto di riferimento della gente, ma soprattutto di quell’elettorato di sinistra ormai stufo di una dirigenza politica che non vuol vincere.

d.d.

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