Il libro di Giovanni Ballarini, “La forma dell’oro” (Slow Food Editore, 240 pagine, 16,50 Euro) ci accompagna in un “viaggio nella storia del Parmigiano Reggiano, un’avventura sociale”. Una storia che inizia nel Medioevo, poco dopo l’anno 1000, e si dipana attraverso le epoche, seguendo i grandi mutamenti geopolitici, economici, agricoli, commerciali, per proiettarsi nel futuro. C’è un filo rosso dato dal formaggio, la sua nascita nelle abbazie e poi la sua diffusione nei secoli su tutte le tavole d’Europa. Un formaggio che assumerà secoli dopo il nome di Parmigiano Reggiano, evolvendo, cambiando a seconda dei tempi, ma restando sempre il re della tavola. Un prodotto simbolo dell’Italia ma soprattutto di un territorio che è stato modellato anche e soprattutto in funzione della sua produzione, integrata con l’allevamento, la coltivazione e forme di industrializzazione varia. Il libro di Giovanni Ballarini è un modo originale, piacevole ma rigoroso e dotto per parlarci dell’epopea che ci ha consegnato questo tesoro gastronomico.
Solo due esempi – per i nostri pochi ma affezionati lettori – su dove si può andare a finire quando si comincia a parlare di formaggio, nel caso di Parmigiano Reggiano. L’autore del libro ci racconta, infatti, che l’imperatore Federico II di Svevia (“Stupor Mundi”), trovandosi a guerreggiare dalle parti di Parma dimostrò di gradire molto le lasagne condite con il parmigiano grattugiato. E Giovanni Boccaccio – dalla storia alla letteratura – nel suo “Decameron” evocò lo stesso formaggio nella terza novella dell’ottava giornata, quella famosissima del Paese di Bengodi (qui citata nell’italiano attuale, non quello dell’epoca): “Maso rispose che, per la maggior parte, si trovavano in Berlinzone, terra dei baschi, nella contrada di Bengodi, dove si legavano le vigne con le salsicce e si poteva comprare un’oca per poco, con l’aggiunta di un papero. Vi era, poi, una montagna di formaggio parmigiano grattugiato, sul quale stava della gente che faceva soltanto maccheroni e ravioli e li cuoceva in un brodo di capponi. Poi li gettava giù e chi più ne pigliava, più ne aveva. In quei pressi scorreva un fiumicello di Vernaccia, del migliore che mai si bevve, senza neppure una goccia d’acqua”.
Red. Cro.