Non avrei mai immaginato che fosse possibile scrivere in bianco e nero. Invece, è quanto riesce a fare il francese Patrick Modiano (Boulogne-Billancourt, 1945), vincitore del Nobel 2014. Sia che scriva di lontane storie svoltesi nella grigia e gelida Parigi occupata dai nazisti, sia che narri vicende ambientate in tempi a noi più vicini, si ha sempre la sensazione di guardare un vecchio film in bianco e nero di cui è possibile, addirittura, sentirne anche il ticchettio d’antan che accompagnava lo scorrere della pellicola.
La vasta biografia, che si compone di opere notevoli, da Via delle Botteghe Oscure (1979) a Viaggio di nozze (1991), da Dora Bruder (1998) a Perché tu non ti perda nel quartiere (2015) – solo per limitarci ad alcune traduzioni in Italia – costituisce un’unica, densa esperienza che tende a ricomporre un passato frantumato in mille schegge, un passato incapace di spiegare il presente che scorre piatto e incolore, senza una finalità. Quasi a voler suggerire che la vita, per assurdo, è puntellata da una lunga serie di casualità e circostanze incontrollabili, che giustifica una latente insensatezza, una generale inconcludenza: «…la vita continuava senza sapere bene perché in un dato momento uno si trovasse insieme a certe persone piuttosto che ad altre, in un certo luogo piuttosto che altrove…».
Nei suoi romanzi, giudicati «inclassificabili» – aggettivo che lo scrittore, peraltro, apprezza! – domina un’atmosfera inquietante che avvolge Parigi, descritta con minuzia ossessiva, nei suoi quartieri, strade, alberghi, squallide pensioni, ristoranti, caffè, cinema, e i suoi tanti protagonisti, personaggi misteriosi, spesso dediti a traffici loschi, che spariscono per riemergere poi dalle nebbie del tempo, grazie a piccoli dettagli come un articolo di giornale, un documento ritrovato, un indirizzo scritto in un’agenda o un numero rinvenuto dalle pagine ingiallite di un vecchio elenco telefonico. La memoria è impegnata in uno sforzo sovrumano per impedire che l’oblio cancelli ogni cosa, ogni volto, ogni nome, ogni luogo. A Modiano, infatti, è stato riconosciuto, dall’Accademia Reale di Svezia, «l’arte della memoria con la quale ha evocato i destini umani più inafferrabili». Ma, come scrive Elisabetta Sibilio, docente di Letturatura francese all’Università di Cassino: «la motivazione, pur evocando a sua volta temi e atmosfere che rimandano alla narrativa di Modiano, è “sbagliata” perché … la memoria è paradossalmente proprio l’elemento difettoso, mancante, fallace, inconsistente, evanescente che narratori e personaggi della sua narrativa inseguono con ansia e fatica, cercando di ricostruire storie e identità, “destini umani”» (E. Sibilio, Leggere Modiano, Carocci, 2015).
In Un pedigree, il libro sicuramente più autobiografico, il raccontare è sempre il tentativo faticoso di rimettere insieme le mille tessere di un puzzle di cui si percepiscono confusamente solo i contorni e i mille frammenti di un passato che gli restano drammaticamente appiccicati addosso.
Tutto lo tormenta e ogni vicenda narrata rivela l’assenza totale di ogni conforto: l’infanzia difficile che lo vede, con lo sfortunato fratellino Rudy, sballottato presso conoscenti e sconosciuti vari da genitori anaffettivi che inseguono frustrate ambizioni – la madre, un’aspirante attrice di nessun successo, il padre, ebreo, sfuggito inspiegabilmente alla prigionia tedesca, sempre immischiato in attività poco chiare – e ancora i duri anni di reclusione in collegio e in scuole cattoliche a Parigi, gli innamoramenti, le relazioni precarie, le prime letture, fino ai faticosi esordi di romanziere che lo proietteranno nel mondo degli adulti e della società letteraria.
Proprio Un pedigree costituisce la prova-confessione in cui Modiano, schiacciato da una sterminata e confusa massa di ricordi, cerca di ricostruire o, addirittura, ‘costruirsi’ un pedigree, appunto, un albero genealogico, per aggrapparsi ad una identità ex novo, meno sfocata, meno inafferrabile.
In una Parigi a volte spettrale, misteriosa, lo scrittore tenta, con un procedimento documentaristico, di porre rimedio alle lacune, ai vuoti e al grigiore del suo passato. Un viaggio a ritroso che resta, tuttavia, incompleto, spezzettato, monco, in cui l’autore pare trovarsi nell’impossibilità di dire o confessare tutto. Come se nella sua scrittura si avvertisse una sorta di reticenza in cui si nasconde non solo la ‘colpa’ di un padre, ma anche la macchia del Collaborazionismo per cui la Francia abdicò, per un periodo della sua storia, la propria identità di paese libero.
Un libro sul sofà. Aprile 2016.
a cura di Giovanni Nacca
Rubrica mensile su un libro da leggere o rileggere.
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