Attraverso le parole degli artisti meglio conosciuti della scena italiana, Andrea Bertolucci ci porta alla scoperta del genere musicale più dibattuto del momento: la Trap (o il Trap per alcuni, al maschile). “Trap game, i sei comandamenti del nuovo Hip Hop” (Hoepli, 132 pagine, 17,90 Euro) è il libro per chi è incuriosito dal fenomeno che condiziona i giovani d’oggi e che travalica i confini della musica diventando espressione diretta di scontro generazionale.
La nostra storia comincia ad Atlanta, negli USA, agli inizi del 2000. Nelle aree abbandonate di questa grande città ricca di contraddizioni prende forma – da quello che viene definito “south style”, il Rap proprio del sud degli Stati Uniti – un innovativo stile musicale, strettamente legato al fenomeno delle “trap house”, abitazioni periferiche adibite alla preparazione e alla vendita di sostanze stupefacenti. Non a caso “trapping” nello “slang” (gergo) dei giovani americani sta appunto per “spacciare”. La vicenda della Trap è connessa a quella di bande criminali e la cosa è chiara fin dalle prime pagine del libro, dove da subito viene raccontato della BMF (Black Mafia Family), una gang che – investendo i proventi illeciti in una etichetta discografica e grazie a legami con membri dell’hip hop statunitense – ha fatto da trampolino per queste sonorità, lanciandole in pochissimo tempo sulle vette delle classifiche mondiali.
La Trap non è semplicemente un tendenza musicale, è cultura, è una visione della vita, che piaccia oppure no. “Essere trap” significa desiderare fama e denaro, ostentare la propria ricchezza con auto di lusso, abiti costosi e gioielli. Diversamente da quello che era il vecchio Hip Hop, il “nuovo Hip Hop” è fortemente individualista, in molti affermano che è una delle tante traduzioni del mito del “self made man” (l’uomo che si è fatto da solo) del “sogno americano”; gli artisti, oggi, rompono la segregazione dei “ghetti“ – dove erano confinati – in maniera individuale, condividendo con pochi prescelti il proprio successo. Visione molto diversa da quella dei primi “Block party” (festa dell’isolato) organizzati dai pionieri del Rap che speravano con le rime di cambiare la condizione di vita degli afroamericani; adesso non si parla più di combattere il potere come cantavano i Public Enemy in “Fight the power” ma di conquistare una fetta di quel potere con la propria gang e la propria famiglia. Una lettura, questa, comunque non totalizzante e onnicomprensiva, data la vastità dell’universo della Trap, in continua evoluzione, ben illustrato da Andrea Bertolucci, che riesce non solo a darci un quadro generale ma con il suo libro scende anche nel particolare.
Il volume di Andrea Bertolucci è diviso in due parti principali: la prima, più breve (con prefazione di Emis Killa e TM88), in cui l’autore scrive delle origini del genere, facendo un rapido volo sulla sua evoluzione, negli USA e nel resto del pianeta; la seconda parte lascia spazio alla voce di alcuni degli artisti più noti del circuito mainstream (cioè la tendenza dominante) italiano: Lazza, Vegas Jones, Ketama126, Ernia, Beba e Maruego. Sono loro stessi a raccontare che cosa è la Trap e che significa “essere trap”, approfondendo inoltre il caso dello scontro che c’è stato agli inizi della diffusione della specie sopravvenuta tra nuova scena Trap e la vecchia scena Rap in Italia.
“Trap game, i sei comandamenti del nuovo hip hop” è davvero bello da sfogliare; ai margini delle pagine i vari approfondimenti sulle storie degli artisti, o sulle canzoni più rappresentative, aiutano a far entrare in questo contesto anche chi non è esperto ma semplicemente curioso di conoscerlo. Chi ha inventato la Trap? Come ne parlano i suoi protagonisti? Come si considerano gli artisti? Sono tutte domande alle quali troverete risposta leggendo il libro di Andrea Bertolucci. I soldi, il “blocco” (quartiere, isolato), le sostanze stupefacenti, lo stile, le donne e il linguaggio: sono questi i temi principali della Trap secondo l’autore, che ci porta a scoprire un forma musicale provocatoria, così come probabilmente ha voluto essere lui stesso nel titolo, evocando i “sei comandamenti del nuovo Hip Hop“. Fare riferimento a un nuovo Hip Hop e a nuovi “comandamenti” è di sicuro un’espressione che ai puristi del “Rap old school” (Rap vecchia scuola) farà storcere il naso, abituati a “pilastri” (è il modo in cui vengono chiamate le discipline che compongono l’Hip Hop) ben diversi, come i graffiti e la break dance ad esempio.
Di fronte a un genere musicale che ha condizionato il mondo intero, influenzando molti aspetti della cultura giovanile quali il linguaggio, l’abbigliamento e i consumi, si ha a che fare con tantissime sfumature. Di fatto le varie declinazioni del genere iniziano a produrre pure altre tematiche al suo interno, lasciando un po’ da parte la ricerca smisurata di denaro e concentrandosi su altri argomenti. Esempio ne è il Regno Unito con la “Drill” (letteralmente tradotto come “trapano”, nel gergo prende il senso di “uccidere”): la violenza delle gang diviene il tema principale nei testi delle canzoni, ma non mancano artisti che danno un’impronta politica, tra tutti Drill Minister. Ma questa è un’altra storia della quale l’autore non ha potuto parlarci, altrimenti avrebbe dovuto scrivere l’intera “Bibbia del nuovo hip hop”.
Dario Palmesano