“Prima che il gallo canti”: torna il grande libro che consacrò Cesare Pavese

“Prima che il gallo canti”: torna il grande libro che consacrò Cesare Pavese

“Prima che il gallo canti” (Garzanti, 656 pagine, 14 Euro), pubblicato la prima volta alla fine del 1948, fu per Cesare Pavese il libro della consacrazione. Di certo i due romanzi che lo compongono, scritti a distanza di quasi dieci anni, rappresentarono per lo scrittore uno snodo doloroso. Se infatti “Il carcere” trasfigura l’esperienza del suo confino in Calabria, “La casa in collina” affronta invece la grande pagina bianca della sua vita: la mancata partecipazione alla Resistenza, proprio mentre alcuni dei suoi amici più cari morivano nella lotta antifascista. Come Gabriele Pedullà mette in luce in questa edizione riccamente commentata, non è però solo in chiave autobiografica che tali pagine vanno lette. Più che fare i conti con le proprie viltà, Cesare Pavese si era prefisso di ricostruire dall’interno – alla Dostoevskij – un tipo psicologico sgradevole ed estremamente difficile da mettere a fuoco: quello dell’ignavo che mentre il mondo brucia sceglie di non schierarsi. Memoriale inaffidabile di un uomo del “rancore” alla perenne ricerca di un alibi, “La casa in collina” offre così al lettore un viaggio nei tormenti della coscienza moderna. Il volume, a cura di Gabriele Pedullà, ai avvale anche di un’appendice critica di Federico Musardo.
Segnaliamo questo libro soprattutto ai nostri lettori più giovani, che forse poco hanno avuto modo di approfondire i temi del fascismo e dell’antifascismo, della Resistenza e della guerra civile. Cesare Pavese è un grande scrittore e “La casa in collina” ha, a nostro avviso, parole che si collocano tra le più alte (e discusse) della letteratura italiana del Novecento. Scrive tra l’altro Cesare Pavese, riferendosi ai fascisti caduti a seguito di un attacco dei partigiani: “Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione”. E ancora, le parole che concludono lo stesso romanzo: “Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: ‘E dei caduti che facciamo? perché sono morti’. Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero”.

Red. Cro.

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