Non sorprende affatto Stefano Simoncelli (Cesenatico, 1950) con la raccolta Residence Cielo , in cui, con la solita eleganza, continua a muoversi coraggiosamente tra le ombre di chi ha amato e che sono via via scomparsi nel tempo. Non solo, ma in essa trova spazio anche un capitolo nuovo, altrettanto intenso e doloroso, che riguarda il poeta stesso, colpito da ictus il 6 dicembre del 2017 e miracolosamente salvo, dopo aver attraversato per lungo tempo le devastanti terre del coma. Un viaggio misterioso che ha trascinato il poeta in luoghi inaccessibili, bui e paurosi, un viaggio che per fortuna si è, comunque, concluso nel migliore dei modi, dato che l’involontario passeggero finisce col perdere «il treno in partenza per le tenebre». Ma anche nel limbo della drammatica condizione tra il coma e un improbabile risveglio, in cui pure lui vaga come un’ombra, un’anima tra altre anime in pena, confessa la straordinaria tenacia di essersi sempre «sentito vivo, anche se a un passo dalla morte». E nel viaggio verso l’ignoto, Simoncelli si ritrova a colloquiare con le anime a lui più care, incontrandole in questo Residence, in questa «specie di paradiso dove sono andate ad abitare e mi aspettano molte persone che ho amato». Una fitta schiera di persone affolla la memoria del poeta che è sempre accesa, trafitta da uno struggente sentimento della perdita, che lo fiacca, lo svigorisce, ma di cui non può fare a meno, pena lo smarrimento, il vagare «in certi sogni / di paludi sperdute nella nebbia», sino al disintegrarsi del suo stesso essere. È lì, tra quelle terre d’ombre, tra le nebbie di una straziante nostalgia, che il poeta si sposta con collaudata temerarietà, consapevole da sempre di essere «il custode più affidabile» della memoria di una lunga lista di scomparsi. Nel tormentato processo di rammemorazione – filo rosso in tutta la sua produzione da Via dei Platani del 1981 a Giocavo all’ala, da La rissa degli angeli a La terza copia del gelo, da Hotel degli introvabili sino a Prove del diluvio del 2017 – riaffiorano continuamente la moglie Patrizia, drammaticamente scomparsa in un batter d’occhio; l’esile figura della madre, che rivede intenta a sognare e a cucire «vaporosi abiti da sera» tra i «rocchetti colorati di cotone sopra la vecchia singer»; o il padre, «di cui è andato resettato quasi tutto / ma basta che mi guardi allo specchio per vederlo». Figure fondamentali, imprescindibili per comprendere il suo mondo e il suo modo di essere al mondo. Accanto ad esse scorrono, poi, numerose altre ombre, quelle dei tanti amici poeti (Pasolini, Raboni, Giudici, Gatto, Caproni) molti dei quali conosciuti – assieme all’amico e poeta anch’egli, Ferruccio Benzoni – sin dai tempi della rivista «Sul Porto». L’improvvisa scomparsa di alcuni di essi procura in Simoncelli una violenta lacerazione e la loro dipartita è vissuta come un tradimento perché «se ne sono andati via in un lampo». Come nel caso di Vittorio Sereni – il poeta che più di ogni altro ha amato, scomparso improvvisamente, il 10 febbraio del 1983 – che lo immagina, come per incanto, giungere al cancello di casa «da dove mi guarda in silenzio / tra le spesse sbarre di ferro / aspettando che gli apra / ma non so chi dei due / sia adesso il prigioniero, / chi quello fuori e chi dentro».
La capacità evocativa del poeta è tale da materializzare quasi la figura degli assenti, ne avverte continuamente la presenza, li scova ovunque, sente i loro passi, ne cattura il respiro, percepisce parole appena sussurrate all’orecchio mentre dorme o aspetta di ascoltarne le voci dalla cornetta di un remoto telefono. Chiama a convegno una fitta schiera di anime, una folla sommersa con cui entra in dialogo e sembra che i morti siano vivi; «la memoria di voi che trema in noi» scriveva il friulano Pierluigi Cappello, altro formidabile interlocutore con chi non c’è più. E i morti nella poesia di Simoncelli ritornano in vita, quasi li tocchi, li sfiori, li vedi affacciarsi, comunque, nel cammino difficile del poeta. Nel «tormento dei sopravvissuti» non si stanca di perlustrare luoghi remoti, freddi e a tratti inospitali – le case una volta vissute e ora disabitate, vecchi bar e trattorie scomparse, spettrali fermate di bus, stazioni ferroviarie – dove le diafane trasparenze, precipitate dal sogno della vita, sembrano ora implorare il poeta affinché siano strappate dalle gelide pareti dell’oblio. Ma il prezzo da pagare è un prezzo altissimo, ai limiti delle possibilità umane e, non poche volte, il lettore rabbrividisce nel leggere questi versi, percependo la temperatura raggelante dell’inverno in cui Simoncelli vive. Le sue poesie, infatti, sono spesso piene di vento, di freddo, di brividi, di pioggia, di neve, in cui scatta immediatamente l’associazione freddo – morte: «“Se esci copriti bene” / le avevo telefonato un minuto prima / “mettiti sciarpa e cappello. Fa freddo” / ma non pensavo mai un freddo così», scrive a proposito dell’ultimo ricordo che stringe della madre.
Nell’impossibilità di cicatrizzare le ferite, lo sguardo interiore del poeta si risolve in un intreccio felice e assoluto tra vita e parola poetica. Un intreccio in cui, nonostante il disagio esistenziale, si snoda un dialogo commosso e continuo con gli assenti, cercando di «studiare fino all’ultimo momento / come è viva e imprendibile la luce», quella luce capace di rischiarare un irrefrenabile desiderio di vita.
Un libro sul sofà. Maggio 2019
a cura di Giovanni Nacca
Rubrica mensile su un libro da leggere o rileggere.
da http://www.pignataromusica.it/